Il mio rapporto con la fotografia? Il mio approccio personale allo specifico “mezzo di espressione”?
Talora mi percepisco in agguato, come una cacciatrice che punti la sua preda in un bosco, o al limitare di un corso d’acqua o di un lago. Una suggestione originata dai miei studi mitologici, forse.
Il mio sguardo è affinato da anni e anni di pratica delle immagini.
La contemplazione e lo studio delle opere della pittura e, più in generale, delle arti visive hanno esercitato i miei occhi a recepire, a selezionare e a classificare le forme.
E di forme—e ritmi—si costituiscono anche la musica e la poesia, alle quali ho dedicato e dedico una consistente parte delle mie energie.
La natura, infine, è parte essenziale della mia vita. Non posso starne lontana senza un patimento dell’animo e un deperimento fisico.
Queste le premesse.
Nella fotografia ho rinvenuto—tardivamente e con mia stessa sorpresa—un modo di cogliere e di decifrare i segnali innumerevoli che la natura ci trasmette; di stabilire un dialogo tra le forme della natura e quelle dell’arte, ritrovando nelle une le matrici percepibili delle altre, e, ad un tempo, reinventando le prime alla luce delle seconde; e—in ogni caso—istaurando con la natura un privilegiato rapporto di conoscenza e di ri-conoscenza che di giorno in giorno si rivela più affascinante, e che è del tutto inesauribile.
Mi si è chiesto quale tecnica io adotti.
La tecnica dell’osservazione paziente. La macchina fotografica è il mezzo che mi consente di fissare, e di condividere con altri, le armonie che mi si manifestano, e le consonanze che mi si rivelano, addentrandomi negli ambienti naturali, e osservandoli con occhio esercitato, e con una concentrata vigilanza dei sensi e della volontà.
Penetro in un bosco, costeggio un ruscello o un lago, mi trattengo, ritorno in condizioni di ora e di luce diverse. A mano a mano decifro un ordito e una trama—mille orditi e mille trame; ritmi segni e colori che compongono forme che rinviano ad altre forme.
C’è mai dissonanza nella natura? La natura conosce senz’altro la sua direzione, ma via via si traduce e si risolve in un’infinità di disegni perennemente cangianti: che parlano, dicono, comunicano. Parlano del processo, del divenire. Io stessa mi sento e mi vedo in divenire, mai conclusa e definita, in sempiterno fluire. Come potrei non identificarmi intimamente con ciò che vedo? Non mentirei se dicessi di non esistere se non in quei momenti, nei quali riconosco in ciò che vedo la mia stessa essenza, precariamente e provvisoriamente separata da me nel tempo e nello spazio. Una percezione/concezione romantica, se non fosse anche percorsa da una consapevolezza—molto molto intensa, e del tutto contemporanea- della fragilità della natura, e del nostro distorto e distruttivo rapporto collettivo con lei.
La mia fotografia, ad ogni buon conto, non insegna né ammonisce. Semplicemente esplicita: ciò che la natura potrebbe essere ed è, se lasciata a se stessa, “in repose”—condizione illusoria, peraltro: giacché fermenta sotto la superficie, si muove impercettibilmente agli orli, ci sconfigge se le siamo ostili.
A ben considerare, quel mio star ferma a guardare non è predatorio.
Più che catturare, più che sottrarre, io presto. Presto me stessa come un medium attraverso il quale la natura si sveli come armonia, eloquenza, continua reintegrazione di una non meno continua frammentazione, suscettibile di essere “assorbita” dalla particolare distanza—artificiale ed intima ad un tempo—dell’arte.
A ben considerare, ancora, la fotografia è stata ed è per me una scoperta magnifica e fresca, una sorta di esercizio spirituale—di esperienza sacerdotale, vorrei dire, se non paresse eccessivo. E’ vero però che quando fotografo provo una concentrazione interiore che mi spinge lontano, e una voglia schietta di condurre me stessa e gli altri verso un oltre che, alla fine (poiché le sorprese non si esauriscono) risulterà per tutti del tutto familiare.